Aspettare il sax

So solo che quando partono la batteria e poi il contrabbasso e poi i primi accordi di piano di Dave Brubeck, poco prima che si innesti il sassofono che dà il riff di “Take five“, mi immergo in un’altra dimensione.
A metà pezzo, quando rimane per un po’ solo la batteria, il contrabbasso e il piano di Dave Brubeck e il ritmo sembra finire, qualcosa mi manca, ma non riesco a capire bene cosa. So che non è vero che la forma è forma e la sostanza sostanza, so che molte volte la forma è anche sostanza, ma spesso molti se lo scordano. Anche io me lo scordo, qualche volta.
So che questo rullante sincopato alternato al tocco leggero del piano presto dovrà finire o questa melodia potrebbe anche rischiare di lasciarmi in uno stato di perenne attesa. So che molti lucani sono in un stato di perenne attesa.
Mi sembrano la batteria, il contrabbasso e il piano di Dave Brubeck.

So che molti non hanno coraggio, pur ostentandolo ai quattro venti, ma poi alla prova dei fatti si sciolgono come una pozzanghera di agosto, proprio quella pozzanghera che lo sanno tutti che alle prime piogge tornerà a riempirsi di nuovo e le macchine ci sbatteranno le ruote dentro nel passaggio, ma niente. L’acqua ritornerà a formarsi, magicamente.
So che questo piano ritmato dovrebbe anche poter cambiare ritmo, sonorità, nell’attesa che avvenga qualcos’altro.
So che non è possibile fare i cambiamenti tutti assieme, ma che bisogna cambiare un poco alla volta, ma tutti i giorni.
So che presto nella melodia qualcosa cambierà, non ci sarà nessuno a cantare, questo lo so, ma presto cambierà.
So che molti aspettano che cambierà, ma la loro è un’attesa passiva, molti la vivono con più partecipazione, mentre la maggior parte è lì, aspetta e basta.
Eccolo quel diavolo di un sax, puntuale, a dare sostanza a quei tre strumenti lasciati colpevolmente da soli. Niente chitarra, che strano. Difficile pensare a un brano senza chitarra e invece si. Solo quei quattro strumenti, li riconosci chiaramente dalle casse dell’hi-fi, due per parte, sembrano suonare proprio dietro di te, magari se ti volti li vedi davvero.
Ed infatti eccoli lì, che ti guardano e ti sorridono anche. Dave Brubeck Quartet.
Il quartetto è la dimensione giusta, equilibrata. Molti suonano in tre, ma sembra che manchi qualcosa, altri in cinque, ma forse poi sono tanti. Poi ci sono le orchestre, ma quello è un altro discorso. Nel jazz, il numero perfetto non è tre, ma quattro.
Adesso si, che quei tre strumenti lasciati da soli per un pò di tempo sanno dove andare, seguendo quel sassofono come i topi seguivano il pifferaio di Hamelin. So che questa storia deve cambiare, deve ritrovare la sua melodia, che non può finire così.
So che quando sta per finire il brano “Take Five” di Dave Brubeck, l’attimo dopo, resterò come ipnotizzato dentro quello spazio di silenzio di due secondi e mi sembrerà di mancarmi qualcosa.
Ma mi riprendo subito. Parte un altro brano.