Bruce Springsteen, Napoli, 23 maggio 2013

Piazza del Plebiscito è già in trepidante attesa da ore e ore prima delle 20, ora fissata per l’inizio della magìa.
La gente, consapevole delle previsioni del tempo, sta spesso con gli occhi alle nuvole minacciose, cercando, con lo sguardo della speranza, di allontanare la minaccia.
Sul selciato della piazza l’attesa è paziente: un concerto del Boss si aspetta sempre sapendo di essere, tutti insieme, protagonisti di un evento.
Poi, d’improvviso, alle 18 esce, a sorpresa, lui e la chitarra, senza fronzoli, senza farsi annunciare da nessuno, come un operaio qualsiasi che fa gli ultimi aggiustamenti sul palco, solo che questo operaio ha la chitarra e l’armonica, e comincia a cantare This hard land.
Appena la chitarra accenna le prime note, la piazza ha un sussulto in avanti, si sposta quasi a cercare un avvicinamento al palco, un po’ incredula di vederlo lì, da solo.
La terra dura inizia ad essere più leggera e a riempirsi di attesa, poi parte la seconda “Growing up”, al termine della quale finisce il più bell’antipasto che si potesse immaginare, Springsteen saluta con un “Tutto Bene”, ma sembra già di stare in Paradiso.
La gente adesso può ritornare a combattere le nuvole con gli occhi.
Alle 20,20 escono Nils Lofgren, Charlie Giordano e Roy Bittan con le fisarmoniche per regalare a Napoli: “O sole mio”, lui va a prendersi dal pubblico un cartello a forma di sole, e subito dopo attacca tutta la band con Long Way Home: il concerto è appena iniziato e già pare di stare in un sogno.
Come sempre nei suoi live, è l’energia a farla da padrone e, quasi senza soluzione di continuità, ecco le altre meravigliose perle alla collana musicale che l’artista sta cucendo: My love will not let you down, Out in the street e Hungry heart, per poi arrivare al blocco “standard” del tour, quello con le canzoni dall’ultimo Wrecking ball.
Le inquadrature dei giganteschi monitor laterali evidenziano, uno ad uno, tutti i componenti di questa leggendaria band, soffermandosi spesso sull’alter ego del Boss, quel Little Steven che lo affianca sul palco da decenni, un piccolo Buddha con la bandana e la chitarra.
Il Boss è già padrone di Napoli: potrebbe chiedere qualsiasi cosa ai 20 mila del Plebiscito e loro eseguirebbero senza esitare un secondo, rispondendo, come magnetizzati, dal cenno della sua mano che li invita a sottolineare con la loro voce i passaggi delle canzoni.
Bruce non stacca mai la spina tra un pezzo e l’altro, sembra non voler mai interrompere questa magìa, e solo le parole “one, two,three, four”, segnano il passaggio da un pezzo all’altro, ribadendo un feeling con i musicisti che si è perfezionato da anni di palcoscenico e migliaia di concerti.
Non è un concerto solo di chi sta sul palco, è un concerto di tutta la piazza, sono lì ammassati ai suoi piedi i protagonisti delle sue canzoni.
Forse il suo successo, più di qualsiasi altro musicista al mondo, è stato quello di scrivere musica e parole che sono vicini alla gente, anzi di più: appartengono alla storia di ciascuno di loro.

Il suo contatto con i fans è sempre diretto e mai intermediato, scende tra di loro, stringe centinaia di mani, ha un sorriso per chiunque e chiunque è perdutamente innamorato di questo Arcangelo vestito di nero, ma dal sorriso e dal cuore pulito come una colomba.
Il rapporto con il pubblico ha qualcosa a che fare con l’Amore, ha l’emozione, la partecipazione affettiva, perfino il contatto fisico, ma a differenza dell’amore classico è più trasversale: lo amano anche gli uomini, riconoscendo in questo messaggero di musica e di passione un passaporto per una vita che può essere migliore, anche solo cantando a squarciagola di notte in una piazza di Napoli.
Prende molti dei cartelli che i fans gli hanno dedicato (sarebbe impossibile prenderli tutti), lasciando capire che i pezzi che eseguirà sono quelli che gli chiede la gente, in barba a tutte le possibili scalette preparate.
Gli basta uno sguardo con Roy Bittan e Little Steven e poi cede alla tentazione di accontentare una coppia che gli ha passato il cartello con scritto “ I love Rosalita”, e ne fa l’ennesima performance trascinante ed emozionante, così come, a seguire, Radio Nowhere.
Come le sue mani non si staccano mai dalla chitarra, così le braccia protese della folla sono sempre pronte ad accompagnare ritmicamente le note che provengono dalle lunghe file di casse.
La versione di The River è eseguita solo con il fratellino adottivo Little Steven, ma la folla è così partecipe che lui l’allunga fino all’inverosimile, poi un intro con chitarra di Because di Night introduce Prove it all night.
Poi arriva la pioggia, scrosciante e maledetta: il pubblico non ce l’ha fatta a cacciare vie le nuvole con le sue preghiere, e allora ci pensa lui, suonando, come se fosse un rito propiziatorio, Waiting on a sunny day. Ma il miracolo si compie con Who’ll stop the rain dei Creedence: gli ombrelli si possono chiudere, qualcuno da lassù deve aver ascoltato l’Arcangelo sceso in terra con un gilet nero.
E allora può riprendere la sequenza: Rising, Badlands e The land of hopes and dreams. È un’apoteosi. Non solo per le note che ti arrivano nell’anima, ma anche per molte lacrime di gioia che si mischiano alle gocce della pioggia che benedicono i sanpietrini di Piazza Plebiscito come se fosse un miracolo di primavera.
L’ultima parte è il blocco delle canzoni dell’identità: My hometownBorn in the USA e Born to run, ed una inconsueta Twist and Shout per dare allegria alla serata.
Il saluto a Napoli il Boss lo fa, così come all’inizio, da solo con la chitarra, cantando “Thunder road”.
Termina così una serata magica e piena di speranza ed emozione: se il mondo deve trovare ancora la sua strada per la felicità, questa strada parte da Vico Equense e finisce nel New Jersey.

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