Alla ricerca delle parole perse

Mi ha sempre fatto sorridere l’espressione usata a proposito di certi soggetti allorquando si vogliono mettere in luce le loro capacità culturali e si ricorre alla frase “sanno leggere e scrivere”.
Ovviamente tra virgolette, perché leggere e scrivere lo sappiamo fare tutti, ma il mondo in continua evoluzione, l’uso ormai dilagante della tecnologia e la tempesta di informazioni a cui siamo sottoposti muta anche i linguaggi, costringendo tutti, giovani e meno giovani, a guardarci intorno con una certa circospezione e riuscire a selezionare le cose veramente importanti.
Sta di fatto che i linguaggi odierni si distaccano sempre di più da almeno due attività che a quelli della mia generazione hanno sempre inculcato: leggere e scrivere, appunto.
Come tutti sappiamo, da un bel po’ di anni, si legge sempre di meno, ma apro in questo momento qualche brevissima considerazione sulla attuale capacità di scrittura perché a mio avviso presenta una caratteristica piuttosto contraddittoria.
Molti “adulti” (docenti, genitori,  ecc.) si lamentano del fatto che oggi i ragazzi scrivono meno bene che in passato. La contraddizione risiede nel fatto che da qualche anno a questa parte, se ci pensiamo un attimo, scriviamo tutti molto di più che in qualunque altro periodo storico. L’uso dello smartphone, il ricorso ai messaggini, il famoso whatsapp, per non parlare dei social che ormai fanno parte della vita quotidiana di chiunque di noi, ci pone nelle condizioni di scrivere come nessuno ha mai fatto nelle precedenti epoche storiche.
Da questa premessa si dovrebbe arguire che oggi si dovrebbe scrivere meglio, ma pare invece che non sia affatto così. Come mai? Ci sono molte risposte possibili ad una domanda simile. Ne abbozzo solo un paio, senza la pretesa che siano esaustive, ma tanto per provare ad inquadrare il fenomeno.
Quello che i nativi digitali hanno imparato bene è che la velocità imposta dalla rete vieta (non dal punto di vista normativo ovviamente, ma di utilità) messaggi che siano più lunghi di due/tre righe. Due o tre righe su un cellulare sono veramente una manciata di parole. Se per esprimere un concetto devi sintetizzarlo in poche parole, questo concetto deve essere necessariamente semplice. Se scrivi messaggi semplici, la tua testa, a lungo andare, si concentra esclusivamente su quella tipologia, tralasciando progressivamente la possibilità di concepire ragionamenti più complessi. Se qualcuno non capisce tutto quel che vogliamo dire in quelle poche righe si arrangi, è un problema suo.
Se non abituiamo più il nostro cervello a fare ragionamenti più articolati, siamo tutti – nessuno escluso – portati a considerare solo le cose più “a portata di mano”. Morale: la nostra famosa complessità neuronica, il nostro riuscire a considerare molte fattispecie anche di un solo argomento e il nostro senso critico, quello che ci porta a scannerizzare gli argomenti e far sì che si possano affacciare argomentazioni varie e differenti da quelli che ci vengono proposti, se ne va a farsi friggere proporzionalmente con  l’aumento dell’utilizzo da parte nostra della tecnologia “sms” (Short Message Service).
Ogni volta che mi trovo a disquisire con alcuni amici docenti (naturalmente di materie letterarie), molti di essi, prima che della cultura in generale, osservano il fatto che la maggior parte degli studenti lamenta serie difficoltà a tenere la parola per un lasso di tempo che superi i pochi minuti. Molti di essi si interrompono di continuo e riprendono soltanto dopo che l’insegnante li abbia stimolati con una domanda, oppure con l’invito a rendere più chiaro il ragionamento. Sintomi di un pericoloso declino non strettamente culturale (le materie si possono imparare anche senza dover argomentare in profondità), ma di una certa esiguità del proprio vocabolario.
Se, prima di tutto, “scrivere è descrivere”, allora c’è urgente bisogno di recuperare una certa articolazione di ragionamento, affinchè esso possa poi essere incanalato verso una abilità di scrittura maggiormente analitica, particolareggiata.
Flaubert, uno che scriveva da Dio, che non aveva whatsapp e si annoiava molto, diceva che “per qualsiasi cosa si voglia dire, c’è solo una parola per descriverla, un verbo per animarla e un aggettivo per qualificarla”.
Allora andiamo a recuperare quelle esatte parole, quei verbi precisi e quei giusti aggettivi per tornare a dare colore ai nostri pensieri e profondità alle nostre descrizioni.
Già, ma come?

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